La lettura di testi letterari è importante perché permette di entrare nello spirito con cui si viveva nel passato, al di là del fatto puramente storico e la drammaticità di alcune di queste storie dimostra che dalla parte del soldato di leva le cose stavano in modo abbastanza diverso da come la retorica dell’epoca le mostrava. Dobbiamo anche riconoscere che, pur nella sofferenza di abitudini di vita estranee alle natie al bisogno il soldato italiano era, come è, capace di sopportazione e sacrifici che non possono essere spiegati che coi desueti (ma veramente?) concetti di amor di patria e senso del dovere. Comunque, se si vede in quello che avanza del nazionalismo un apporto culturale e di valori al nuovo mondo della globalizzazione la prospettiva cambia notevolmente.

Da Storie di Caserma del Ten. Arturo Olivieri Sangiacomo riportiamo AI TIRI DI COMBATIMENTOe l’ultimo ed il più breve racconto, I VINTI, l’unico senza illustrazioni, di questo libro un po’ retorico ed un po’ amaro ma basato fondamentalmente su esperienze e ricordi personali raccontati con capacità più da letterato che da militare. L’autore fu costretto dal padre ad arruolarsi a 17 anni per la sua cattiva condotta e riuscì con la volontà di riscattarsi ad entrare nell’Accademia di Modena e divenire ufficiale. Nel primo di questi racconti, in forma di lettera ad una signora, Arturo Olivieri Sangiacomo descrive un campo in montagna ed il lettore potrà facilmente fare un paragone con quanto si è conservato e quanto è mutato da quei tempi ad oggi. Nel secondo racconto Sangiacomo ci presenta l’arrivo a Napoli dei prigionieri della battagli di Adua, cosa che quasi nessun giornale dell’epoca fece; lasciamo al lettore il giudizio morale. (Ten. Arturo Olivieri SangiacomoStorie di Caserma, con quindici disegni originali del pittore V. Corti e del tenente Maurizio Basso. Milano, Antonio Vallardi, 1892. Le indicazioni riguardano evidentemente una prima edizione perché la battaglia di Adua si svolse nel 1896, quattro anni dopo,)

Il secondo racconto, LA SASSATA, è tratto da La Vita Militare di Edmondo De Amicis, il celeberrimo autore di Cuore. Si tratta di una serie di racconti ispirati a fatti di cronaca (ricordiamo che De Amicis era giornalita) e rielaborati nel 1868 in volume. Il libro ebbe per molto tempo un successo notevole e fu soggetto anche a numerose traduzioni nei principali paesi europei. La purezza della lingua, specie nell’edizione del 1880, e la capacità narrativa dell’autore ne farebbero ancora un buon testo per le scuole medie. (Edmondo De AmicisLa vita Militare, Bozzetti, edizione riveduta e corretta dall’autore con alcune aggiunte, Milano, Fratelli Treves editori, 1880.)

Questi tre raccontini di Piero Pastoretto sono… esilaranti, comunque da leggere: Noi SczerbaIL METEREORITE e METASOGNO. Raccomandiamo anche il raccontoche ipotizza il convegno di una società di dottissimi storici dediti a… falsare la storia: ATTI della “NOBILE SOCIETÀ HOSPITIENSE della DONAZIONE” Un uomo chiamato Cavallo. Chi non ricorda la celebre canzone Lili MarleenPiero Pastoretto ne racconta la storia…. E se fosse vera? Da gustare anche questa. Come avrebbero immaginato gli antichi una spedizione scientifica che si spingesse fino ai confini del mondo? In Dove Si Narra Di Una Straordinaria Spedizione Scientifica dell’Antichità, il nostro segretario, affronta l’argomento in un breve racconto redatto in uno stile che imita una ipotetica traduzione dal latino, rivelando buone doti di novellista oltre quelle ben conosciute di scrittore di storia. (Il racconto è inedito). Sempre di Piero Pastoretto pubblichiamo altri due racconti inediti ambientati uno al tempo delle guere indiane, Deposizione a Verbale, e l’altro, Una Storia Garibaldina… vedranno i lettori. Ma se tempo e spazio si confondessero, cosa accadrebbe?

Il presidente della nostra associazione, Giampaolo Bernardini, ha ritrovato un vecchio libretto con una poesia di Gilberto Maggini che ci è parsa curiosa e divertente ma anche indicativa dell’orgoglio che provava un ex combattente del 268° fanteria e della Brigata Cosenza; Altre notizie non abbiamo se non quelle dedote dal libricino stesso e del quale proponiamo la riproduzione (maggiore del naturale per facilitare la lettura. IL FANTE E IL PADRETERNO.

Anche una poesia per bambini può servire alla Storia Militare per ricordarci che un’educazione completa deve comprendere tutti gli aspetti ed i valori del mondo degli adulti. L’autore è Giovanni Amadio e la poesia Il saluto Militare fu pubblicata sul Corriere dei Piccoli durante la I Guerra Mondiale. Il piccolo bambino che vorrebbe essere preso sul serio quando fa il saluto militare era Gino Amadio, morto anni dopo sul suo S79 in Africa dopo aver trasmesso le laconiche parole “missione compiuta“.

Abbiamo inserito, in seguito, un brano poco conosciuto, la chiusura della II giornata dei Ragionamenti di Pietro Aretino (Arezzo 1492 – Venezia 1556) , poco inerente forse alla storia militare ma divertente nella sua straordinaria comicità modernissima e “demenziale”. Ricordiamo che Piero Aretino, oltre che umanista e letterato, era segretario particolare di Giovanni delle Bande Nere e visse a lungo con lui al campo seguendolo anche in guerra. (L’Aretin, poeta tosco, di tutti disse mal fuorché di Cristo, scusandosi col dir: Non lo conosco!) I ragionamenti sono il dialogo tra due donne che si chiedono se far fare alla propria figlia la monaca, la puttana o la maritata; optano per la puttana per savaguardare la propria indipendenza. All’epoca la cosa non fu campresa ed il libro fu preso per un brillante racconto pornografico. Pietro Aretino fu uno dei più discussi letterati del suo tempo per il realismo delle sue opere, nella chiusura alla II giornata dei Ragionamenti una serie di paragoni bizzarri sconvolge le immagini tradizionali dell’epoca come lui stesso fa notare, ma l’immagine dei fuochi del campo eche si accendono e delle case che si illuminano come le stelle mano a mano che arrivano le avanguardie ed i reparti è certamente suggestiva, almeno quanto quella del Sole che va alla posta degli Antipodi che lo aspettano come polli balordi!

Ancora una poesia, questa volta di Gabriele d’Annunzio, che descrive una Torpediniera nell’Adriatico. Il poeta, trentenne, aveva già cominciato a dare vita al fenomeno del dannunzianesimo, un modo di vivere esaltato e confuso, estetizzante, in cui però viveva un sottofondo di ideali realmente sentiti dal poeta e che rispondevano a quelli della parte più cosciente della società. Il sentimento di una natura nella quale e con la quale vivere non è forse più che mai di moda oggi? La necessità di avere valori, anche propriamente italiani, anche come apporto originale al nuovo mondo che nasce dalla globalizzazione, non è forse sentita da un po’ da tutti? Allora, certo, il nazionalismo prevaleva e la poesia descrive una torpediniera, tipologia di naviglio nuovissima per l’epoca, ma il tema vero è l’irredentismo della città italiane dall’altra parte dell’Adriatico (Zara?). Invitiamo a leggere senza fretta per non perdere la rispondenza tra assonanze ed immagini ed avremo lì, davanti a noi, la torpediniera.

Il commento al prossimo brano, La cavalla morta di Curzio Malaparte, è di Francesco Lamendola che brevemente illustra la figura e l’opera di Curzio Malaparte; la trascriviamo per intero senza ulteriori, inutili, commenti perché anche la vita di questo scrittore è degna di essere oggetto di considerazione e meditazione.

“”Abbiamo riportato una pagina del libro Kaputt di Curzio Malaparte, perché ci è sembrata bella e degna di un grande scrittore.
Figura scomoda, c’è poco da fare, quella di Curzio Malaparte; scomoda e controversa, tanto è vero che fa ancora discutere, e arrabbiare, i critici letterari.
Nato a Prato nel 1898 da padre di origine tedesca e da madre lombarda, il suo vero nome era Kurt Erich Suckert. Interventista, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale si arruola volontario, giovanissimo, e va al fronte; dopo l’armistizio del novembre 1918, si reca prima a Bruxelles e poi a Varsavia, come addetto culturale del ministro Tommasini, presso la Legazione italiana. Rientrato in Italia, nel 1921 pubblica il suo primo libro di successo (e di scandalo): La rivolta dei santi maledetti, dedicato alla ritirata di Caporetto.
Si mette in luce come giornalista molto dotato e diviene condirettore de La fiera letteraria, nonché collaboratore del Corriere della Sera. Come saggista scrive, con stile graffiante e volontà di denuncia, L’Europa vivente: teoria storica del sindacalismo nazionale (1923), dedicato al fascismo, e Italia barbara (1925), un elogio “ruralista” e strapaesano dell’italiano rozzo e, perciò, “sano”. A quest’ultimo si ricollegherà, molti anni dopo, il suo ultimo libro di successo, Maledetti toscani, pubblicato poco prima della morte.
Aderisce al fascismo e partecipa alla marcia su Roma, ma i suoi rapporti con il Fascio sono sempre sul filo del rasoio: anarcoide, irrequieto, avventuroso e sempre indisciplinato, mal sopporta ogni genere di mordacchia, sia politica che culturale. Una tipica manifestazione della sua bruciante inquietudine, che taluno giudicherà incoerenza o, peggio, opportunismo, è il suo vorticoso oscillare fra Strapaese e Stracittà. Tuttavia, anche se, nel 1926, fonda con Massimo Bontempelli la rivista 900, resta intimamente legato a L’Italiano di Leo Longanesi e soprattutto a Il Selvaggio di Mino Maccari, sul quale aveva pubblicato le ballate dell’Arcitaliano (edite in volume nel 1928), nelle quali aveva dato sfogo al suo gusto satirico e burlesco, venato di forti umori popolareschi e il cui seguito ideale sarà, nel 1949, Il battibecco.
Scrittore prolifico, fluviale, sempre teso a cimentarsi in nuovi generi, Malaparte si impegna anche nel racconto, con Avventure di un capitano di sventura (1927), in cui parla per bocca di uno straccivendolo, e con Don Camaleo (1928), in cui se la prende con il trasformismo di Mussolini, senza mai levarsi dalle labbra quel suo ghigno beffardo e irritante, quel tono risentito che nasce da una sensibilità offesa.
Dal 1929 al 1931 è direttore de La Stampa di Torino; conosce molte lingue e viaggia in Unione Sovietica, Germania, Francia, Gran Bretagna. Il suo libro Tecnica del colpo di Stato viene pubblicato in Francia, direttamente in lingua francese, nel 1931. Il regime non gradisce: al suo rientro in Italia, viene arrestato, espulso dal partito e condannato a cinque anni di confino; che sconta, però, solo in piccola parte, forse anche grazie alle numerose e potenti amicizie che si è fatto nell’alta società e nella stessa famiglia dei Savoia.
Attratto dalle esperienze più diverse e perfino opposte, vulcanico, provocatorio, sarcastico, si è fatto un nome con i suoi libri di notevole impatto sul pubblico e, più ancora, con i suoi servizi giornalistici anticonformisti, sanguigni, arrabbiati. Ma non riesce a trovar pace. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, viene richiamato alle armi come capitano degli alpini e destinato dapprima al fronte occidentale, contro la Francia; poi inviato sul fronte russo, che percorre in lungo e in largo, dalla Finlandia all’Ucraina.
La sua fama di scrittore è legata soprattutto ai libri che raccolgono le sue corrispondenze di guerra dal fronte occidentale, Il Sole è cieco (nel 1941 sul settimanale Tempo; poi, in volume, nel 1947); quelle dal fronte orientale, Il Volga nasce in Europa (1943); e il dittico sull’Europa e sull’Italia distrutte dalla guerra, materialmente e moralmente: Kaputt 1944) e La pelle (1949), senza dubbio le sue pagine letterariamente migliori.
Finita la guerra, rimane per qualche tempo in Francia, poi torna in Italia e riprende la sua carriera giornalistica, viaggiando fra il Sud America e l’Estremo Oriente, sempre curioso di tutto, sempre irrequieto e ribelle; questa volta avvicinandosi al marxismo ma anche, suprema contraddizione (oppure no?), risentendo le suggestioni della spititualità cristiana. Fino all’ultimo vuol provare tutto, sperimentare tutto: si cimenta nel genere teatrale e scrive Du côte de chez Proust e Das Kapital, entrambe nel 1951, e Anche le donne hanno perso la guerra, nel 1954.
Non basta: Malaparte vuol provare anche il cinema e, per il grande schermo, scrive e dirige il film Il Cristo proibito, nel 1950, tratto dal suo romanzo omonimo. Interpretato da Raf Vallone, Elena Varzi, Gino Cervi, Alain Cuny, Rina Morelli e Anna Maria Ferrero, è la storia di un reduce di guerra che torna al villaggio natio per scoprire chi ha tradito suo fratello, fucilato dai tedeschi in seguito a una delazione, e che egli vuole ora vendicare Si scontra, però, con il muro di omertà eretto dai suoi compaesani, stanchi della guerra e decisi a dimenticarne gli orrori. Alla fine, sarà proprio la madre del protagonista (Vallone) a lasciarsi sfuggire il nome del colpevole; il quale, tuttavia, otterrà il perdono, dopo che un a specie di santone si è sacrificato, facendosi uccidere al posto del vero colpevole.
La critica cinematografica ha accolto questo film con lo stesso imbarazzo e le stesse reticenze con i quali la critica letteraria ha accolto i saggi e le opere narrative di Malaparte. A denti stretti, ha dovuto riconoscergli doti indiscutibili di regista, in quest’unico film da lui girato nella sua vita; ma, al tempo stesso, non si è lasciata sfuggire l’occasione per mettere il dito sulle piaghe, vere o supposte, sia dell’impianto registico che del linguaggio espressivo. Il Morandini, ad esempio, scrive che Il Cristo proibito, “unico film dello scrittore toscano (1898-1957), ne esibisce i vizi più che le qualità: effettistico, compiaciuto, provocatorio anche se qua e là lampeggiante di talento”. Già, il compiacimento: è una delle cose che più danno fastidio, in Malaparte – almeno ai suoi detrattori -: quel bisogno narcisistico di mettersi sempre al centro della scena, di riflettere sempre il mondo nella propria persona.
Mentre viaggia come giornalista in Russia e in Asia, raccogliendo i materiali che, poi, formeranno l’opera postuma Io, in Russia e in Cina (1958), i medici gli diagnosticano un tumore maligno: così. crediamo, lui avrebbe preferito che si dicesse, e non quel pudibondo e ipocrita “male incurabile” che è d’obbligo fra le persone socialmente corrette. Trasportato in Italia, si spegne, dopo una lunga agonia, nel 1957.
La scomodità e l’ingombranza del personaggio è testimoniata dal silenzio assordante, o quasi, che gli hanno dedicato i curatori delle antologie e delle storie letterarie per le scuole medie superiori. In molte di esse il suo nome compare solo di sfuggita, mentre, come è noto, una ventina di ani fa c’è stato un tentativo, per fortuna abortito, di contrabbandare fra i grandi nomi della nostra letteratura perfino Alberto Moravia, che non è mai stato capace di scrivere una pagina come quella della cavalla morta, da noi sopra riportata.
Gli ha nuociuto, senza dubbio, non tanto il suo passaggio dal fascismo al comunismo, avvenuto nel secondo dopoguerra – quello, semmai, agli occhi della cultura dominante, era un titolo di merito, o almeno una attenuante -, ma il peso non eliminabile che la sua opera ha avuto nel contesto della cultura fascista.
Ha scritto di lui Nino Tripodi, che pure è stato un severo censore degli intellettuali voltagabbana dell’Italia repubblicana e democratica, nel suo libro Intellettuali sotto due bandiere (Roma, Ciarrapico Editore, 1981, pp. 394-395):

“Un grande figliol prodigo alla ricerca del perdono fu, tra i letterati italiani, Curzio Malaparte. Merita un discorso a sé, sia per l’obiettivo valore artistico, sia perché non catalogabile nel magma degli intellettuali trasmigrati da una bandiera all’altra appena la prima fu ammainata per il disfavore delle armi. Le sue contraddizioni, la sua ambiguità. Furono il frutto di inquietudini che lo accompagnarono tutta la vita, ovunque abbia militato, con chiunque si sia accompagnato.
“È vero che Malaparte diede al fascismo contributi essenziali e penetrativi oltre la contingenza episodica, come per esempio molte pagine dell’Europa vivente. Ma è altrettanto vero che, se dal fascismo ebbe fama ed onori, ebbe anche carcere e confino di polizia. È vero che al cattolicesimo offrì sentimenti di fede, facendosi addobbare, pochi giorni prima di morire, in clinica, con commovente umiltà, una mensola con un altarino, con immaginette di santi, cuori di stagnola e statuine di gesso pitturato, chiedendo e ricevendo il battesimo e la prima comunione. Ma è altrettanto vero che, morendo, regalò una villa ai comunisti cinesi e che il suo ultimo pensiero – secondo alcuni, l’ultimo suo testamento di fede politica – possa essere connesso agli scritti inviati dalla Russia e dalla Cina a un quotidiano milanese, cronache che è difficile non considerare apologetiche del materialismo marxista.
“Fosse intima e perpetua delusone la sua di fronte a un mondo sempre incompiuto, fosse distaccato abuso letterario di una penna cui le possibilità dello scrittore consentivano di chiedere tutto e il contrario di tutto, certo è che la sua personalità politica, lancinata dalle antitesi, non può essere interpretata con la chiave semplicistica di un versipellismo improvviso, a guerra perduta. Ma neppure può essere del tutto estirpata dal terreno mussoliniano, prendendo per buona la tesi di un suo fascismo da scialo o per copertura. (…)
“L’antifascismo ha così respinto Malaparte, come più di una volta lo aveva respinto la mano secolare del fascismo. Ed è strano che lo abbia respinto persino il comunismo, nonostante la congenita inclinazione a coprire chiunque si sia rifugiato nel suo grembo. Quando nel 1966 uscì postumo il suo libro Diario d’uno straniero a Parigi, scritto da Malaparte nel 1947, i comunisti italiani gli contestarono su Paese Sera il diritto di chiamarsi resistente e gli negarono l’indulgenza che quelle pagine in fondo imploravano. Quanto a noi, non abbiamo alcuna intenzione di ergerci a giudici di Malaparte, sia pure per “assolverlo”; non pensiamo ci spetti questo diritto.
Delle sue idee politiche, o delle sue contorsioni politiche, giudichino altri.
Solo, ci infastidisce il fatto che, dopo il 1945, la cultura dominante abbia usato due pesi e due misure, “assolvendo” ex fascisti passati al comunismo come Cesare Pavese, e respingendone altri, come Malaparte; questo sì. E ci dà tanto più fastidio, in quanto i meriti – o i demeriti – dello scrittore, in entrambi i casi (e in molti, molti altri) sono stati subordinati al criterio del “politicamente corretto”, secondo i canoni della Vulgata resistenzialista.
Ci è piaciuto riportare il brano della cavalla morta, tratto dal suo libro probabilmente più famoso, Kaputt, perché ci sembra sia un bel brano di prosa e – nonostante qualche eccesso barocco -, degno di stare fra i migliori della letteratura italiana del Novecento.
Non ne faremo un commento né un’analisi dal punti di vista letterario, perché ci sembra vi sia, oggi, un eccesso di critica letteraria, così come Nietzsche trovava che vi fosse un eccesso, nell’Europa di fine Ottocento, di storia e di storiografi. Quante cantonate hanno preso i signori critici, del resto; o, peggio, quante volte si sono piegati ad assecondare e a plaudire la parte politicamente vincente, dando invece l’ostracismo a quella sconfitta. E tale è stato, in larga misura, anche il trattamento riservato a Malaparte, come si è visto.
L’Italia, Paese di santi, di artisti e di navigatori, è anche la Repubblica dei critici letterari; anzi, per meglio dire, la Dittatura dei critici letterari. Malaparte lo sapeva bene, quando (in Italia barbara), parlava “di quella specie propriamente nostrana di rivoluzionari che sono i pedanti”, specie che è “in sommo grado politica”. E quelli non gliel’hanno mai perdonata.
Pazienza.
Ma il lettore comune, sarebbe ora che prendesse un po’ più di coraggio e cominciasse a leggere, e soprattutto a pensare, con la propria testa e con i propri gusti. Staremmo freschi, se dovessimo leggere solo le pagine e gli autori ai quali lorsignori concedono il nihil obstat; e, soprattutto, se dovessimo attenerci ai loro giudizi di valore.
Grazie al Cielo, non è ancora necessario uno speciale permesso, per comperare e leggere qualunque libro, anche se i critici storcono il naso e fanno i difficili.
Che se ne vadano pure al diavolo.
Una bella pagina di letteratura non cessa di essere bella, per il fatto che a loro non piace.””

Ancora di Francesco Lamendola è il commento ad alcune poesie del poeta austriaco Georg Trakl, commento che riportiamo per intero:

“”In una delle sue ultime poesie, scritta pochi giorni prima della morte, il poeta austriaco Georg Trakl, uno dei più grandi della letteratura contemporanea (ma che allora era un illustre sconosciuto) trasfigurava così l’evento sconvolgente dell’agosto 1914, che, di colpo, aveva gettato l’Europa dai fasti della belle époque alle inaudite carneficine della prima guerra mondiale:

SUL FRONTE ORIENTALE.

Dopo un ultimo viaggio a Berlino alla vigilia della guerra, per recarsi al capezzale della sorella Grete, gravemente ammalata, Trakl, giovane di ventisette anni (era nato nel 1887, a Salisburgo, da madre praghese cattolica e da padre ungherese protestante), era stato richiamato nella riserva dell’esercito austro-ungarico e spedito per ferrovia, insieme a centinaia di migliaia di suoi coetanei, per affrontare le armate russe nelle grandi battaglie d’estate, sui campi della Galizia e della Bucovina.
Dotato di un animo mite e tormentato, indebolito dall’uso degli stupefacenti e straziato dal rimorso a causa dell’amore incestuoso per Grete, il poeta era stato, d’improvviso, scaraventato nella grande carneficina di Grodek, con il grado di ufficiale della sanità. E lì, quasi subito, gli era toccato in sorte di vivere una delle esperienze più spaventose che possano capitare a un essere umano: ancor più spaventosa e orribile di quella dei poveri fanti, che si trovavano esposti al fuoco delle artiglierie pesanti o al tiro radente e implacabile delle mitragliatrici. Da solo, senza medicinali e senza infermieri, senza aiuto e senza ordini, dovette assistere un centinaio di feriti gravi che si lamentavano, e alcuni dei quali agonizzavano, nelle immediate retrovie del fronte.
Schiacciato dall’orrore della scena e dalla consapevolezza della propria, assoluta impotenza, Trakl aveva tentato il suicidio; ma i commilitoni lo avevano disarmato. Era stato, allora, inviato in osservazione presso l’ospedale psichiatrico militare di Cracovia. In quegli ultimi giorni della sua vita terrena, – verso la fine di ottobre – il poeta ricevette la visita di una persona amica: Ludwig von Ficker, editore del quindicinale d’avanguardia Der Brenner (L’Incendiario), di Innsburck; uno dei pochi – insieme all’editore Kurt Wolff, di Lipsia – ad averne intuito la grandezza. A Ficker, fece ancora in tempo ad affidare le sue due ultime poesie, scritte l’indomani della battaglia e ancora – come s’usa dire – fresche d’inchiostro: Klage II (Lamento, seconda versione) e Grodek.
Poco dopo, nella notte fra il 3 e il 4 novembre 1914, Trakl portava a termine il tentativo compiuto al fronte poche settimana prima, probabilmente per mezzo di una overdose di cocaina; ma non sapremo mai le circostanze esatte del decesso e non vi è neanche la certezza assoluta che si sia trattato di un suicidio. Certo è che il poeta faceva uso, da anni, della cocaina per combattere la sua insicurezza e la sua depressione; e, in simili casi, è praticamente impossibile tracciare una netta linea di separazione fra l’intenzionalità dell’uso massiccio di droga, allo scopo di farla finita, e il gesto involontario dovuto a una dose eccessiva.
Le sue prime esperienze con gli stupefacenti risalivano al 1905, quando, studente di liceo classico ripetutamente bocciato (sarebbe riuscito a diplomarsi, ma in farmacia, solo nel 1910), aveva dovuto abbandonare la scuola e trovarsi un lavoro nella farmacia All’angelo bianco di Salisburgo. Allora, si era trattato del cloroformio; più tardi, addetto ai medicinali nei servizi sanitari dell’esercito austriaco, non gli era mancata l’occasione per continuare su quella strada.
La vita, per lui, era consistita in una serie di sconfitte, di frustrazioni, di angosce. Appena riusciva a trovare un lavoro, subito si licenziava. Non era, semplicemente, la lotta di un temperamento romantico, metà Hölderlin e metà Rimbaud, contro le convenzioni e le regole imposte dalla vita sociale; e tanto meno una rivolta titanica contro i “filistei”, i bravi borghesi, da parte di uno spirito rivoluzionario. Trakl non aveva nulla del rivoluzionario, anche se il suo percorso artistico era stato influenzato, oltre che dal simbolismo (Maeterlinck e Hoffmansthal specialmente), dalle maggiori avanguardie dell’epoca, soprattutto l’espressionismo; tanto è vero che qualcuno lo ha definito il solo, vero classico tedesco del XX secolo – giudizio che, a nostro avviso, evidenzia solo un aspetto della sua personalità poetica e fa torto all’altro, grandissimo poeta suo contemporaneo: Rainer Maria Rilke.
Piuttosto, si può dire che nella sua vita breve, infelice ed errabonda, più che il mito byroniano di Prometeo e dell’eroe romantico in lotta contro il mondo, si concentrano tutte le ansie, i timori, la perdita d’identità che caratterizzano lo spirito europeo negli ultimi anno dell’Ottocento e nei primi del Novecento. È una crisi generale che investe l’io, la razionalità, le certezze etiche, estetiche e scientifiche, la metafisica, la religione, il senso complessivo dell’esistenza. La sua drammatica vicenda umana presenta alcune somiglianze con quella di Strindberg, lo Strindberg di Inferno; anche la nota della sessualità offesa e dolente vi è rappresentata; come pure quella della nevrosi come stato abituale della coscienza, che lo avvicina, passando per Kafka, Svevo e Thomas Mann, alle ribollenti, misteriose profondità dell’inconscio freudiano.
E poi Margarete, l’amatissima sorellina Grete, nata nel 1891 e perciò di quattro anni più giovane. Crescendo, il già stretto legame fra i due (ultimi di una numerosa sequela di fratelli e sorelle) sarebbe diventato un vero e proprio amore impossibile, vissuto da entrambi fra i laceranti rimorsi della coscienza e l’incoercibile desiderio reciproco; ma riscattato dalla purezza e dall’intensità di un legame che andava molto al di là della semplice attrazione sessuale. Basti dire che la povera Grete finirà per togliersi la vita, con un colpo di pistola, tre anni dopo la tragica scomparsa di Georg. Era il 1917, cominciava il quarto inverno di guerra: quella guerra assurda, tremenda, divoratrice di milioni e milioni di giovani vite, che sembrava aver fatto scendere sull’Europa e sul mondo una spessa coltre di barbarie senza fine, senza speranza. È certo che, uccidendosi, i due fratelli avevano cercato di uscire dalle angustie di una realtà percepita ormai come intollerabile, come crisi totale di identità, di valori, di significato.

Questo senso del crepuscolo di un mondo, dello sfacelo di ogni certezza e dell’angoscia esistenziale sempre più insopportabile, costituisce il tema dominante di Klage (Lamento), la penultima poesia scritta da Trakl sul fronte orientale, poco prima della fine:

LAMENTO.

In questa poesia, Sonno e morte sembrano usciti, come paurosi incubi notturni, da un quadro di Heinrich Füssli; l’onda dell’eternità, che par sommergere la dorata immagine dell’uomo, ha un qualche cosa di heideggeriano (e, infatti, Heidegger dedicherà alcune pagine penetranti alla poesia di Trakl); gli scogli paurosi sembrano anticipare certi paesaggi della narrativa di Ernst Jünger; e il naufragio del coro purpureo è parente del battello ebbro di Arthur Rimbaud, ma senza la sua voglia gioiosa di libertà e di trasgressione. Qui, il battello che affonda sotto una volta celeste trapunta di stelle, nel silenzio senza tempo della notte, ha qualcosa di dolorosamente malinconico, come lo strazio di una bellezza dalla quale ci si sente respinti; e richiama certe atmosfere leopardiane, con le quali ha in comune il senso di smarrimento, di abbandono, ma non – ribadiamo il concetto – la vigorosa protesta o il gesto di sfida.
E poco importa stabilire con certezza – cosa, evidentemente, impossibile – se la sorella di tempestosa tristezza è proprio lei, l’amatissima Grete, muta presenza in tante poesie del Nostro: Sfinge enigmatica o Chimera paurosa, per metà vittima e per metà sacerdotessa di un culto crudele e implacabile, al quale non è dato sfuggire. Così come non è importante stabilire se lo spettacolo del naufragio nella notte silente – il naufragio esistenziale del poeta – le si offra come sacrificio espiatorio per la colpa inconfessabile di quell’amore incestuoso, o se – piuttosto – la sorprenda come un evento inatteso e straziante, profetico annuncio della sua stessa fine. Quel che conta è che, sotto le vivide stelle di un cielo senza misericordia, il battello che affonda e la sorella che guarda sono accomunati dalla loro totale solitudine, dalla nostalgia per un mondo armonioso dal quale si sentono respinti, dalla consapevolezza della colpa impronunciabile, ma – anche – dalla segreta fierezza per un sentimento vissuto coraggiosamente, senza ipocrisie.
Con gli orecchi ancora intronati dalla tragica battaglia di Grodek, con gli occhi ancora pieni dei corpi maciullati e dei cavalli sventrati, Georg Trakl si protende, in questo estremo commiato dalla vita, alla ricerca di una perduta armonia, di una impossibile innocenza, come se cercasse fino all’ultimo, nel cosciente spettacolo del proprio naufragio, le ragioni del bene e del male o, forse, al di là del bene e del male, come il suo amato Nietzsche aveva insegnato, ma come l’altrettanto amato Dostojevskij aveva mostrato esser cosa pericolosissima.

Così, l’ultima poesia vergata dalla mano di Georg Trakl – Grodek -, appare come il frutto dell’esperienza diretta della estrema, sconvolgente violenza della guerra, che era – poi – il fallimento clamoroso e irreparabile di quella razionalità ottimistica e presuntuosa, di quel Logos strumentale e calcolante, con cui l’Europa aveva creduto di poter dominare le pulsioni oscure e selvagge di Thanatos, il cieco istinto di dominio e l’inconscia volontà di autodistruzione. Le Furie della guerra erano balzate fuori non dal nulla, ma da una segreta malattia che aveva covato a lungo sotto le apparenze superficiali, ma rassicuranti, della ragione, della scienza e del progresso.

GRODEK

Ancora una volta, in uno scenario terribile e fastoso, ove il tripudio di una natura bellissima, ma inafferrabile, si sposa con la trasfigurazione dei guerrieri uccisi in battaglia, l’immagine ambigua e lunare della sorella fa capolino tra le fronde del bosco notturno e porge l’estremo saluto ai sanguinanti cadaveri. Immagine elusiva, inquietante, che sembra unire al compianto per le giovani vite distrutte in battaglia una sorta di cupo desiderio di contemplazione dell’orrore (si confrontino quelle bocche infrante del verso 6 con la bocca digrignata del compagno massacrato in Veglia di Giuseppe Ungaretti).
Il sangue versato degli uccisi, poi, che diviene – nel verso 9 – una lunare frescura, spezza ogni nesso logico ed etico-estetico, partecipando il lettore della totale confusione spirituale in cui l’orrore della battaglia ha piombato il poeta; perché l’elemento più raccapricciante di quel paesaggio di morte, il sangue che scorre dai corpi devastati, sembra trasfondersi in notturna rugiada che placa la sete di qualche divinità corrucciata e malvagia.

Pochi poeti, più di Georg Trakl, hanno saputo esprimere non solo l’esperienza della prima guerra mondiale come dantesca discesa verso un mondo infernale di distruzione e disperazione, ma la condizione dell’uomo contemporaneo sradicato da ogni certezza positiva, da ogni sicurezza di ideali e di affetti, e gettato alla deriva in un mondo che, a sua volta, è divenuto una irriconoscibile “terra desolata”, stravolta dalla nemesi della tecnica che, dopo essersi fatta la nuova divinità degli uomini, è divenuta energia puramente distruttiva.
Si confronti, a tale proposito, l’immagine – nel saliceto autunnale che dilegua nella luce incerta del tramonto – di quella rossa nuvola, dove un dio furente dimora: che è, molto probabilmente, una batteria di pezzi da campagna, che spazzano con le loro granate la trincea avversaria.
Non vi è, nell’universo poetico di Trakl, alcun senso di fratellanza umana, di umana solidarietà e simpatia; anzi, non vi é alcuna possibilità di relazione: ogni individuo è scagliato, solo, nella notte infinita, che ha inghiottito ogni verità e ogni compassione.
Una umanità sradicata, angosciata, pervasa da ossessioni e oscuri impulsi di morte, fa da sfondo a una poesia che è colta nell’atto di demistificare le false sicurezze e di mettere a nudo il grande problema, che i trionfi superficiali del “progresso” hanno a lungo mascherato, senza affatto risolverlo: l’antitesi fra l’individuo e la società, vero cancro devastatore della civiltà occidentale moderna.

Oltre a due drammi giovanili – rappresentati entrambi senza successo -, Giorno dei morti (Totentag) e Fata Morgana, entrambi del 1906, Trakl riuscì a pubblicare la sua prima raccolta di Poesie(Gedlichte) nel 1913, poco prima dello scoppio della guerra. La seconda raccolta, Il sogno di Sebastiano (Sebastian in Traum), sarebbe apparsa postuma, nel 1915.

Prima di concludere, ci piace riportare un brano di prosa di Georg Trakl, Rivelazione e rovina, scritto sempre negli ultimi giorni della sua vita, a tu per tu con l’esperienza traumatica della guerra, per dare un’idea delle notevolissime qualità della sua scrittura, che superano la ripartizione tradizionale fra poesia e prosa, ed evidenziano la sua caratteristica capacità di poesia assoluta, si esprima essa in versi, oppure no.
Da questo punto di vista (ma anche con riguardo ai contenuti e, in particolare, all’ambiguità e alla elusività della presenza femminile), l’unico raffronto che si potrebbe istituire, nell’ambito della poesia italiana contemporanea, è senza dubbio quello con Dino Campana, i cui Canti orfici vennero stampati, a spese dell’autore, proprio nel 1914, cioè nello stesso momento in cui Trakl scriveva le sue ultime opere:

RIVELAZIONE E ROVINA.

Anche qui ritorna più volte, indecifrabile e muta presenza, l’immagine della sorella, carica di presagi di morte (che ricorda, per certi versi, la sorella di Roderick Usher nel racconto di E. A. Poe La caduta della casa Usher: cfr. il nostro saggio Letture e riflessioni sull’opera letteraria di Edgar Allan Poe); presagio di morte e purificazione è il fanciullo luminoso, allusivo di una condizione beata che si perde nelle lontananze del tempo; e vi è anche, esplicita, l’intenzione del suicidio, visto come la sola possibile alternativa a una vita di orrori e come estrema opportunità di accedere a un Eden smarrito, a una perduta armonia.
Non è strano che il filosofo che ha descritto la condizione umana come un essere-per-la-morte, Martin Heidegger, abbia nutrito un particolare interesse per la poesia di Georg Trakl. In essa, il nichilismo dell’Occidente tocca uno dei livelli più acuti e si esprime in parole ed immagini di sovrana bellezza – degne di stare acanto a quelle del migliore Hamsun e del miglior D’Annunzio (che ha trattato il tema dell’amore incestuoso tra fratello e sorella nel suo dramma La città morta, del 1899). Paradossalmente, proprio l’uso espressionistico della parola – che colloca la poesia di Trakl già oltre i limiti del simbolismo – allude a un universo minacciato non solo nella sua esigenza di senso, ma nella sua stessa struttura logica; aprendo, così, la via a quelle filosofie del linguaggio, le quali – come, appunto, nel caso di Heidegger – hanno mostrato l’importanza di quest’ultimo, e più ancora del silenzio, come luogo in cui, solo, può avvenire il disvelamento dell’essere.
Ma, in Trakl, il disvelamento dell’essere coincide con la morte: è come se l’unica maniera di accedere al piano della realtà ultima fosse quello di morire fisicamente, e non solo simbolicamente; sicché manca ogni prospettiva di rinascita.
Approdo inevitabile, crediamo, di tutte quelle visioni del mondo – siano essere filosofiche o poetiche – che considerano la storia come bastante a spiegare se stessa e che vedono l’uomo come chiuso e autosufficiente nella sua nietzschiana “fedeltà alla terra””